giovedì 27 settembre 2012

Conclusioni: il Romanticismo e il giudizio!

Procedendo con il discorso, l’uomo comincia a collocarsi al centro grazie alla sua componente soggettiva e nel contempo razionale, il giudizio.


L’uomo può essere geniale ed essere il generatore di giudizi estetici sul bello perché la bellezza è in lui, è nel soggetto e non nell’oggetto. Questo spiega Kant.

A quest’avanzare continuo dell’istanza del soggetto, c’è però da contraltare una netta revisione del concetto di mimèsi. Al geniale non può essere associata la pratica mimetica, nonostante questa rimanga la componente basilare dell’apprendimento. Rimane il fatto che questa nuova istanza dimostra che il soggetto è un qualcosa che giudica e, nel farlo, esprime tutto il suo appassionarsi.  

Come è possibile notare, l’istanza soggettiva e creatrice, le cui tracce si erano già riscontrate nel Rinascimento, emergono a tutti gli effetti nel Barocco e soprattutto nel Romanticismo. Si tratta, infatti, di periodi e correnti culturali strettamente connesse in cui le distinzioni storiche e temporali rappresentano solo delle etichette. E’ necessario pertanto seguire il filo logico della questione della pratica della mimèsi per poter affermare che nel Romanticismo, periodo in cui si sviluppa maggiormente la disciplina dell’estetica, l’arte è un bisogno in cui all’uomo è permesso di riconoscere il proprio io, la propria soggettività attraverso un percorso di autocoscienza. 

Con l’arte, l’uomo si rinnova, lo desta dal torpore, gli conferisce sentimenti, passioni e inclinazioni per fargli ricordare tutto ciò che risiede nell’animo umano, nella sua più segreta intimità. Sono lontani i discorsi sul rifarsi o meno al modello di riferimento; centrale è, invece, la capacità creativa dell’uomo. Si tratta di una capacità libera, autonoma, impulsiva e che simboleggia l’attività dell’Io, della coscienza o dello Spirito verso l’Assoluto. Interpretata come una tappa del percorso della coscienza verso lo Spirito, l’arte assume un’aura sacrale e originaria. Naturalmente si tratta di un’arte in cui l’uomo si deve esprimere attraverso fantasia, ispirazione e immaginazione: se queste componenti mancano, allora la questione mimetica perde la soggettività dell’artista, diventa solo esercizio stilistico e blocca il movimento dialettico dello spirito. 

Per chi interessato, suggerisco i seguenti miei post sull'argomento:



Conclusioni: il Barocco e il fare artistico relativamente autonomo



Anche nel Barocco e nel pre-romanticismo continua la disputa tra antichi e moderni, spostandosi in Francia, attraverso la querelle des Ancien et des Modernes che vede opporsi soprattutto da un lato Nicolas Boileau e dall’altro Charles Perrault
Anche in questo caso:

  • da un lato si ha la convinzione che il modello degli antichi sia già di per sé perfetto e sia necessario solo più prenderlo come riferimento; 
  • dall’altro, invece, partendo dalla convinzione che anche i moderni possiedono tutte le potenzialità per esprimersi in maniera “nuova e diversa”, si sostiene che questi, invece di fare solo riferimento a modelli passati, dovrebbero tendere verso un rinnovamento
Secondo quest'ultima opzione, l’artista deve aspirare alla nouveauté, a une idée vive qui le remplit, all’immaginazione e alla sua creatività: quello che crea l’artista diventa, dunque, un qualcosa di nuovo, un qualcosa che non si è ancora presentato. In questo periodo, la questione non è più solo letta nei termini di passato e presente, ma di passato, presente e futuro: è come se la capacità creativa dell’artista anticipasse quanto ancora non esiste o completasse il senso di quelle passate attraverso la rappresentazione di “qualcosa che è espresso per la prima volta”. 
 

Cominciano, insomma, a comparire la ragione con il libero giudizio e il creativo ingegno. Quest'ultimo, soprattutto, tende a rimpiazzare gradualmente l’insieme di regole, di modelli e di norme dell’antichità. 

Infine, si precisa che questo rapporto antico-classico, e la conseguente interpretazione del processo mimetico, era già potenzialmente presente nel Rinascimento, ma solo nel Barocco riesce ad attualizzarsi in virtù della prospettiva del futuro. Proiettarsi in un tempo ancora indefinito, non significa escludere a priori il passato, bensì rapportarsi con questo in modo tale da completarlo o rinnovarlo. E’ all’interno di questo contesto che l’artista entra nel processo di produzione e circolazione dell’espressione simbolica del potere istituzionale ed elabora il suo fare artistico come un qualcosa di relativamente autonomo

Consiglio, per chi è interessato, i seguenti miei post precedenti legati al periodo del Barocco:


mercoledì 26 settembre 2012

Conclusioni: con l'Umanesimo e il Rinascimento si giunge all'individual subjective expression?



Durante l’Umanesimo e il Rinascimento, la questione della mimèsi si inserisce all’interno di una disputa, quella tra antichi e moderni, che diventa il pretesto per porre in discussione l’appropriazione, la produzione e la distribuzione di modelli e prodotti culturali. Si tratta di una vera e propria “guerriglia culturale” in cui la posta in gioco è la possibilità di esprimersi soggettivamente e individualmente (individual subjective expression).  

La disputa si esprime attraverso due posizioni che sembrano diametralmente opposte: 

  • da un lato c’è la possibilità di fare riferimento a modelli esemplari come quelli del periodo classico;
  • dall’altro la possibilità di rappresentare nella modalità più perfetta la natura attraverso la ricerca scientifica.  
Se nel primo caso da imitazione della natura si passa a imitazione delle rappresentazioni degli antichi considerate le più perfette, nel secondo si rimane all’interno dell’oggetto “natura” e si cerca di rappresentarla nel modo più fedele possibile.

La questione è però leggermente più complessa. Non si tratta solo di una differenza tra il riferirsi a un modello o direttamente alla natura, ma di un qualcosa di più importante: si tratta di una graduale forma di emancipazione dall’autorità degli antichi in modo tale che l’uomo possa, attraverso le proprie competenze, re-interpretare le considerazioni tramandate

Attraverso questa interpretazione della disputa, personalità come Leonardo e Alberti possono essere posti sullo stesso livello di Girolamo Fracastoro, Gianfrancesco Pico della Mirandola, Pietro Bembo, Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla dal momento che in tutti questi casi centrale è la questione dell’auctoritas. La possibilità di giudizio, di rifarsi o meno a un modello di riferimento, di sperimentare è un qualcosa che va in una direzione opposta alla funzione di chi produce e distribuisce i modelli, ovvero della Chiesa, l’Auctoritas. 
 
Svincolarsi da questa significa decidere indipendentemente di scegliere un modello oppure no, ma soprattutto anche nel caso della ripresa di un modello antico, come quello ciceroniano, nulla impedisce all’artista di superarlo nel confronto e nel dialogo con questo. Insomma, come afferma Poliziano, l’artista grazie al suo talento può continuare a essere se stesso pur facendo riferimento a uno o più modelli antichi

Riporto qui di seguito alcuni link ai post precedenti che potrebbero interessare:


Conclusioni: il Medioevo e il ricombinarsi mimeticamente e analogicamente con il divino


Entrando, successivamente, nel periodo medioevale la questione della pratica mimetica è innanzitutto da intendersi come ricombinazione di elementi cultura classica (spesso incorporati) con quelli medievali (e, dunque, anche cristiani). Come succede nell’ambito artistico procedendo con sculture-amalgame (la croce di Lotario), così accade a livello sociale e politico: anche a livello di rappresentazione e distribuzione dei modelli di riferimento, le rappresentazioni del potere politico devono veicolare l’idea che il re, essendo il vicario dell’onnipotenza divina, debba essere presentato mimeticamente simile al divino. La sovranità, nel Medioevo, viene pertanto rappresentata dando un corpo al divino attraverso il Sovrano.  

Non si dimentichi, inoltre, che uno dei testi che ha avuto un’amplissima diffusione è proprio il De Imitatione Christi in cui il modello di riferimento da seguire è il canone della vita spirituale e monastica che, rispetto ad altri modelli, maggiormente si avvicina all’imitazione del divino. Coltivare una vita interiore che porti l’uomo alla vera bellezza, abbandonare qualsiasi forma di conoscenza scientifica e umanistica per abbracciare l’unica vera conoscenza, ovvero, Dio: queste sono le due regole principali per unirsi misticamente con il divino. 

Rimanendo sempre all’interno di questo periodo storico, ma affrontando la questione in termini molto più complessi con Tommaso d’Aquino, la questione della pratica mimetica viene interpretata secondo il principio di analogicità. Si tratta di un principio che elabora il rapporto tra uomo e Dio: solo l’uomo è a somiglianza e a immagine di Dio, non perfetta, ma imperfetta. Solo con l’uomo, dotato d’intelligenza, si attua il grado supremo di partecipazione e vi è una somiglianza specifica; solo l’uomo è vera immagine di Dio e non soltanto come vestigio come lo sono gli altri esseri. Solo l’uomo può conoscere il bello attraverso modelli di proporzione, interezza e chiarezza che riconducono alla manifestazione mimetica di Dio. Si precisa che quando si parla di relazione mimetica, s’intende una relazione di partecipazione: l’uomo è simile a Dio (e non viceversa) e in questa somiglianza all’uomo è consentito produrre e assumere la condizione di artifex

Per chi volesse ritornare su alcuni dei concetti qui sopra esposti, propongo i seguenti miei post:

martedì 25 settembre 2012

Conclusioni: Sant'Agostino e il ritorno alla somiglianza originaria


La somiglianza è, inoltre, il trait d’union tra Plotino e Sant’Agostino: anche in questo caso, il criterio dell’analogia e dell’armonia mediano il rapporto tra la cosa bella e l’anima. 

Ancora una volta ritorna l’idea del viaggio purificatorio dell’anima verso il divino: in questo viaggio, il non corretto uso del bello estetico è inteso come una trappola che cattura l’anima e non le permette di accedere alla bellezza eterna. Solo la riproduzione mimeticamente corretta (analogica e armonica) della somiglianza col divino conduce alla bellezza eterna, da non confondersi con la bellezza sensibile. 
Per bellezza eterna, infatti, s’intende la bellezza interiore, quella dell’anima che ritorna alla sua somiglianza originaria tramite la fede, cioè tramite una forma di spiritualità che porta a una bellezza totalmente interiore.

Un'ultima precisazione.
Per Agostino, Dio è la bellezza di ogni bellezza, è lui la Bellezza. Non c’è una sostanza materiale e una spirituale, ma un’unica sostanza che modula l’esistenza in due maniere, quella che ama le creature per se stesse al posto di Dio e quella che ama Dio sopra ogni cosa.

Elemento fondamentale, sia per Plotino sia per tutti gli autori/intellettuali cristiani, è l’anima. Questa amando Dio, diventa bella; Dio ci ha amato per primo e ci ha fatto diventare belli; la Bellezza è la massima manifestazione dell’Amore che da la vita per gli altri, cioè l’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo (e non solo in quanto intelligibile o proporzione).

lunedì 24 settembre 2012

Conclusioni: Plotino e un certo self-conception?


Mentre l’Impero Romano si sta avviando verso la sua conclusione, emergono altre interessanti riflessioni, come quelle proposte da Plotino (nel presente post) e Sant’Agostino (nel successivo post). 

Plotino, fondatore del neoplatonismo, propone un’interpretazione del rapporto mimetico tra reale e rappresentazione come tentativo di fondere le prospettive razionalistiche della grande tradizione filosofica (Platone e Aristotele) con le nuove spinte irrazionalistiche e religiose della cultura contemporanea

Partendo dal fatto che il rapporto di compartecipazione e di somiglianza tra l’Uno e l’uomo, attraverso la sua anima, è inteso come desiderio di unione con la realtà intelligibile, la contemplazione di questa può essere intesa come attività di rispecchiamento e di specularità, in modo tale che l’anima possa essere sempre più somigliante all’Assoluto. Tale aspirazione mimetica rappresenta il superamento della condanna di Platone proprio perché i termini non sono solo quelli di modello e copia, ma d’intelligibile e sensibile: tra loro esiste inevitabilmente e necessariamente un rapporto archetipico e mimetico dal momento che il mondo sensibile è immagine di quello ideale

A tutto ciò si deve aggiungere il fatto che l’arte, intesa come imitazione della natura, crea e genera bellezza ispirandosi al bello ideale tramite la mediazione dell’anima: questa, infatti, permette alle arti di riprodurre le misure e la luce di quel mondo ideale. 
La bellezza ideale dell’Uno s’irradia e si emana anche sui prodotti dell’arte, pertanto l’arte può essere considerata a tutti gli effetti una via d’accesso all’Uno proprio in virtù di questa somiglianza. E’ questa la chiave di lettura dell’interpretazione della mimèsi: se il bello ideale è riflesso del bello sensibile, anche l’artista e la sua attività di creazione saranno il riflesso della capacità creativa dell’Uno, capacità non da considerarsi come qualitativa, ma solo quantitativa

Questo diverso modo di intendere l’uomo come rispecchiamento del divino porta a concludere che comincia ad apparire all’interno di questo contesto un certo self-conception, tale per cui l’uomo e la sua capacità intellettuale sono uno specchio produttivo e vivente dell’universo e, dunque, anche del divino. 

Rimando, se interessati, ai seguenti post:

Conclusioni: Cicerone, ovvero il cogitare tamen possumus pulchriora


Nel post precedente (Conclusioni: Aristotele e il libero sfogo delle emozioni), si è accennata a una prima (anzi primissima) forma di artistic self-assertion.

Questa prima forma di autonomia, trova la sua applicazione nella figura di Cicerone, personaggio fondamentale in cui la questione della pratica mimetica attraverso la retorica diventa opportunità di emancipazione dal modello di riferimento. L’uomo ha l’opportunità di avere non un solo modello di riferimento, bensì tanti e, inoltre, possiede l’ingenium di “cogitare tamen possumus pulchriora” (Orator, I, 8). Pur rispettando la gerarchia modello-copia, l’artista ha a disposizione le sue caratteristiche personali e il suo repertorio enciclopedico di conoscenze provenienti dallo studio per poter perfezionare il modello e, in casi eccezionali, diventare lui stesso un nuovo modello di riferimento. 

Il fatto è che per Cicerone di estrema importanza nell’arte è ciò che ha origine nella mente dell’artista. Si comincia a parlare di qualcosa che possiede un certo carattere inventivo, insistendo sul fatto che l’oggetto della rappresentazione artistica non consiste nella mera copia dell’originale già dato dalla natura, ma in una immagine ideale, prodotta dalla mente dell’artista. L’imitazione, contrapponendosi alla verità, non è affatto una copia fedele a un modello, ma una libera rappresentazione in base a un modello ideale, in base cioè alle “idee” (dove il termine idee deve essere inteso come forme percepibili, create dalla mente dell’artista).

Per quanto concerne il periodo romano, consiglio la rilettura dei seguenti post:

venerdì 21 settembre 2012

Conclusioni: Aristotele e il libero sfogo delle emozioni


Aristotele, invece, riconsidera la questione della pratica mimetica al di là delle questioni morali o gnoseologiche e la inscrive in una sfera, quella artistica, di sua completa proprietà e in cui può esercitare in completa autonomia.

Facendo riferimento, in maniera particolare, alla questione della tragedia, la mimèsi compare come elemento fondativo di tutto il teatro: l’arte imita la natura, ma nel farlo non la copia, bensì la considera come un modello di riferimento. Così affermando, anche ciò che è irrazionale e immorale può essere presente nella tragedia a patto che questi siano coerenti con il contesto narrato e che la loro presenza non sia gratuita, ma richiesta e giustificata da una motivazione espressamente interna alla poesia (nessi necessari o verosimili).

Inoltre, la relazione tra arte e natura è così stretta al punto che non solo l’uomo impara imitando comportamenti e azioni della natura, ma anche dall’arte stessa: nella tragedia aristotelica, il coinvolgimento dello spettatore si basa sulla sorte che, intesa come momento supremo dell’esistenza, quando si decide della vita e della morte, crea coinvolgimento poiché questi momenti strazianti creano il pathos, impegnando intelletto e cuore. E conoscere può voler dire sperimentare nuove esperienze. Nella tragedia, mossi da pietà, perché la sfortuna può colpire persone innocenti, e da terrore, perché questi casi potrebbero colpire anche gli spettatori stessi, consapevoli del fatto che non si è di fronte al reale, ma all’imitazione di un possibile reale, gli spettatori possono dare libero sfogo alle loro emozioni, uscendo da teatri più sereni e pronti ad affrontare i casi della vita.

Riporto qui sotto un'immagine, molto utile ed esplicativa, tratta da questa pagina web (http://www.cultorweb.com/Estetica/SC.html)


Aristotele, pertanto, non teme la rappresentazione teatrale come, invece, vale per Platone: quest’ultimo la teme perché in realtà la considera solo dal punto di vista della forma espressiva (léxis) che può suscitare nei giovani animi dei cittadini mistificazioni e contenuti irrazionali. Probabilmente, è proprio con Aristotele che per la prima volta compare la questione dell’artistic self-assertion da intendersi come l’opportunità delle forme artistiche di essere autonome nella loro espressione sia dal punto di vista della forma sia da quello del contenuto.

Se volete approfondire il discorso, vi riporto qui di seguito alcuni miei post:

Conclusioni: Platone e il controllo dei modelli


Le riflessioni che si sono proposte hanno preso in considerazione la pratica mimetica attraverso diverse tematiche come il rapporto tra arte e natura, tra modello di riferimento e copia, tra emulazione e invenzione creativa, tra somiglianza e differenza.
Si è partiti dall’analisi di tali questioni all’interno delle opere di Platone e di Aristotele e le conclusioni cui si era giunti erano le seguenti.

Platone: la paura verso l'incontrollabile
In Platone, che aveva intuito nella pratica mimetica artistica la sua origine divina, la connotazione di questa si presenta già in parte negativa, dal momento che l’origine divina è paragonata alla liberazione delle emozioni in una rappresentazione danzante attraverso l’immedesimazione con il divino (Ione).

L’incontrollabile, però, di per sé non può essere contemplato all’interno della struttura sociale della stato: ecco perché la diffusione di modelli di riferimento che possono danneggiare l’animo e il comportamento di quelli che saranno i futuri guardiani della città non è ammissibile. In questo modo, il rapporto modello-copia deve essere controllato e regolato in maniera tale che il modello possa rimanere inalterato e fisso (proprio come gli Egizi facevano con le loro pitture, rimaste nelle piramidi, Le leggi).

La copia è ontologicamente ridotta a pura apparenza, distante due volte dal vero, e gnoseologicamente non può condurre alla conoscenza diretta della realtà, scientifica e razionale (nòesis), ma solo a una sua riproduzione illusoria (phantasmata). La differenza tra l’interpretazione della mimèsi come un qualcosa che proviene dall’ispirazione divina – una performance – e quella che, invece, la posiziona eticamente e politicamente lontana dal vero – imitazione e rappresentazione –, potrebbe derivare da un cambiamento di percezione che nel mondo greco avvenne da un prima, identificato con la società arcaica pre-ellenistica, e un dopo, identificato, invece, con quella moderna e razionale caratterizzata da una serie di cambiamenti tra cui l’avvento del ragionamento razionale della filosofia.

Non si dimentichi, infine, che la questione della pratica mimetica trova una sua interpretazione anche nelle conseguenze che si sono riscontrate con l’avvento della scrittura. A questo proposito, si rimanda al dialogo Fedro e al mito di Theuth. La scrittura non porta con sé conoscenza razionale dal momento che spesso, come è il caso di Lisia e dei sofisti, si traduce in una ripetizione memonica di battute. Derrida, in seguito, leggerà questo mito attraverso la doppia interpretazione del termine pharmakon: la scrittura può essere dannosa, se è intesa come ripetizione memonica priva di riflessione e conoscenza, ma anche benefica, come ha potuto dimostrare Platone riportando in vita e lasciando alla tradizione il pensiero di Socrate attraverso i suoi dialoghi.


Se volete approfondire le questioni che ho riportato qui sopra, vi rimando ad alcuni miei post precedenti:

giovedì 20 settembre 2012

Foucault: l'archeologia del sapere


Siamo giunti ormai al termine della disamina - seppur parziale - della questione della mimesis nel Novecento. Dopo Nietzsche (anche se uomo e filosofo dell'Ottocento), Derrida, Benjamin e Deleuze, è secondo me corretto terminare con Foucault. 

Il sapere e l'archivio: si riscrive e si creano
Là dove si è raggiunto il punto estremo della differenza, tutto non solo è uguale, ma tutto torna, anche sotto forma di archivio. Inteso come deposito del sapere e patrimonio collettivo, il concetto di archeologia del sapere di Michel Foucault (1926-1984), all’interno di questa trattazione, può essere inteso come una riscrittura, ovvero una trasformazione regolata di ciò che è già stato scritto ([Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1980], p. 185).

La relazione temporale tra testi è letta in termini di positività ([Foucault, 1980], p. 168) ovvero come possibilità di definire spazi di comunicazione manifestando delle identità formali, delle continuità o discontinuità tematiche, cioè condizioni di realtà per gli enunciati ([Foucault, 1980], p. 170). Una serie di enunciati o meglio un sistema di enunciati che hanno in comune questo spazio di comunicazione diventa archivio. Se un enunciato appartiene all’archivio allora è diventato evento e pertanto trova la sua enunciabilità all’interno del sistema ([Foucault, 1980], p. 174). 

Il concetto di archivio, in queste brevi parole, sembra ricordare il fond sans fond di Derrida (Derrida: la scrittura comepharmakon (parte II)), una porta sempre aperta verso l’infinito o come direbbe Deleuze un oceano per tutte le gocce. Anche per Foucalt esiste un orizzonte mai completamente definitivo dell’archivio per cui questo non è descrivibile nella sua totalità in quanto noi stessi parliamo al suo interno, siamo dentro le sue regole, le sue possibilità. Esso procede per frammenti, per regioni. In questo senso è possibile affermare che esso ci delimita, stabilendo delle soglie di esistenza che via via cambiano, compaiono e scompaiono:

fa brillare l’altro e l’esterno. […] Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi siamo e facciamo 
([Foucault, 1980], pp. 175-176)

L'archeologia del sapere e il suo fondamento: la diversità
Obiettivo dell’archeologia del sapere non è tanto quello di ridurre le diversità dei discorsi e a delinearne l’unità sotto un’unica legge universale, bensì suddividere per aumentare le diversità.

Ancora una volta emerge il concetto di diversità come cifra identificativa dell’alterità. Si scopre che riflettendo su se stessi, sugli oggetti e sui testi che ci circondano, scatta un processo d’immedesimazione da cui l’uomo non esce più somigliante a quello di prima. Raccogliendo le tracce lasciate dalla memoria, si possono creare corrispondenze apparentemente poco sensate. Apparentemente, perché alla fine il processo mimetico è un processo anche introspettivo e personale in cui la ricerca del senso procede nel rintracciare differenze perdute.

mercoledì 19 settembre 2012

Deleuze e la ripetizione, antropologicamente (parte II)

Come affermato nel post precedente, (Deleuze e la ripetizione, antropologicamente (parte I)), la questione della ripetizione e della differenza diventa cruciale. L'impronta di Deleuze è quella di tracciare un profilo antropologico di questa.


Antropologicamente, presentarsi come Altro 
In un tale contesto di riferimento, la pratica mimetica è letta attraverso il concetto di simulacro ([Deleuze, 1971], p. 117). Questo non è da intendersi come l’emulazione di un modello, bensì la sua contestazione e il suo rovesciamento. L’identità si oppone alla differenza, come la rappresentazione si oppone alla formazione di un’altra natura, o meglio una doppia natura. 

Se si prende in considerazione la relazione tra passato e presente, tra l’antico e l’attuale ([Deleuze, 1971], p. 136), è possibile affermare che non si tratta di due istanti successivi, ma l’attuale necessita di una dimensione per poter rappresentare l’antico (riproduzione, rammemorazione, memoria) e una dimensione in cui si auto-rappresenti (riflessione, riconoscimento, intelletto). Letti attraverso il concetto dell’eterno ritorno, il passato e il presente sono dimensioni dell’avvenire ([Deleuze, 1971], p. 153): il passato come condizione e il presente come agente. 
In altre parole, il presente si attualizza solo attraverso il processo di riflessione con il passato. C’è sempre un continuo spostamento nella ripetizione: il travestimento continuo o la sua continua riflessione in cui il simulacro che si viene a creare non deve necessariamente somigliare al suo modello di riferimento ed esserne una copia della copia, ma, sempre nell’ottica di una forma di emancipazione e di trasgressione, deve presentarsi come altro, a volte anche altro demoniaco proprio perché privo di somiglianza ([Deleuze, 1971], p. 207). Ponendo in relazione il mondo delle Idee di Platone e il concetto di Eterno ritorno di Nietzsche, Deleuze afferma:

Platone tenta di disciplinare l’eterno ritorno facendone un effetto delle Idee, vale a dire facendogli copiare un modello. Ma nel movimento infinito della somiglianza degradata, di copia in copia, si approda a un punto in cui tutto cambia di natura, la copia si rovescia a sua volta in simulacro, ove infine la somiglianza, l’imitazione spirituale, cede alla ripetizione
([Deleuze, 1971], p. 209)

Prime Conclusioni 
La questione della ripetizione, dunque, implica non solo la differenza, ma anche un rapporto riflessivo tra passato e presente, tra l’Io e l’alterità. Questa riflessione può essere letta anche nell'ottica di movimento dialettico in cui:
  • il Sé prima ricorda (memoria);
  • successivamente fuori esce da se stesso (riconoscimento);
  • infine, prende coscienza di sé come alterità e come simulacro (coscienza di sé).
Io e Alterità dipendono l’uno dall’altro: se non ci fosse una prima somiglianza interna, allora la differenza non verrebbe percepita. Come afferma Deleuze:

Occorre assomigliare al padre per avere la figlia, onde la differenza è pensata rispetto al principio dello Stesso e alla condizione della somiglianza
([Deleuze, 1971], p. 434)

Deleuze e la ripetizione, antropologicamente (parte I)


Nel binomio somiglianza - differenza, la ripetizione
All’interno di questo percorso che parte dall’Ottocento con Nietzsche e si conclude con Derrida, la questione della mimèsi si trova sempre meno legata alla disputa tra riferimento emulativo o creativo a un modello: la terminologia cambia leggermente e l’ambivalenza che si presta all’analisi diventa quella di somiglianza-differenza. In questo contesto, la differenza non necessariamente implica la negazione e il contesto della pratica mimetica non è più legato ai vincoli e ai pregiudizi della rappresentazione ([Melchiorre, La Differenza e l’origine, Milano, Vita e Pensiero, 1987], p. 354).

La questione è da porsi, dunque, affrontando un altro termine, ovvero quello della ripetizione:

La messa in crisi del concetto di rappresentazione (la cui ascendenza è heideggeriana) è uno degli aspetti principali della riflessione di Deleuze ed è tema in sé di capitale importanza ([Melchiorre,1987], p. 354).

Con il termine ripetizione, Gilles Deleuze (1925-1995) non intende un processo al cui termine i singoli elementi sono interscambiabili e perfettamente simili. La ripetizione non ha come criterio basilare lo scambio: due cose ripetute non sono interscambiabili, proprio come due gemelli non sono identici tra loro ([Deleuze, Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino, 1971], pp. 9-10). Ciò che permette di giudicare la ripetizione come differenza non è tanto l’intelletto, ma la memoria o il cuore, organi, appunto, amorosi della ripetizione ([Deleuze, 1971], p. 10).

La ripetizione come trasgressione e liberazione della volontà 
In questi termini, la ripetizione porta con sé la possibilità di differenziarsi dalla generalità, di elevare all’ennesima potenza ed estrarre la forma superiore. Facendo riferimento al concetto dell’eterno ritorno di Nietzsche (Premesse: il tema del ritorno. Parte I, Parte II, Parte III, Parte IV), Deleuze afferma:

volontà di potenza non ha per nulla il significato di “volere la potenza”, ma al contrario: qualunque cosa si voglia, elevare ciò che si vuole all’ennesima potenza vale a dire estrarre la forma superiore, grazie all’operazione selettiva del pensiero nell’eterno ritorno, in virtù della singolarità della ripetizione proprio nell’eterno ritorno
([Deleuze, 1971], p. 20)

La ripetizione, che non implica di per sé né il concetto di generalità né quello di somiglianza, bensì della loro differenza, può diventare anche trasgressione rispetto alla legge naturale e a quella morale. In altre parole, è un qualcosa di nuovo, è una liberazione della volontà, è il ritorno dell’Identico nella differenza ([Deleuze, 1971], p. 73).  

L’identità si determina come ripetizione e questa si costituisce travestendosi di volta in volta attraverso una maschera ([Deleuze, 1971], p. 35). Antropologicamente, l’uomo si ripete perché non solo alcune volte se ne dimentica, ma soprattutto perché certe esperienze (e anche certi errori) le riesce a vivere pienamente nella ripetizione ([Deleuze, 1971], p. 36). 

E’ nella ripetizione che, ad esempio, in ritmologia si possono vivere istanti privilegiati: questi s’identificano con quei valori tonici e intensivi all’interno di una serie ritmata da intervalli regolari ([Deleuze, 1971], p. 41).

martedì 18 settembre 2012

Derrida: la scrittura come pharmakon (parte II)

Ma quale compito ha in sintesi la scrittura?

Secondo quanto detto nel post precedente (Derrida: la scrittura come pharmakon (parte I)), La scrittura sarebbe solo ripetizione e non condurrebbe l'intelletto al mondo delle Idee. Platone, in questo caso, ha un esempio molto diretto: i Sofisti. Tuttavia, la questione non termina qui. 

Non si deve dimenticare, infatti, quanto detto a proposito del concetto di pharmakon. 
Questo non significa solo capro-espiatorio, ma può essere sinonimo di pharmakeus ([Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, I, pp. 117-119): Platone spesso si riferisce a Socrate proprio in questi termini identificandolo come stregone e le sue parole agiscono come, appunto, un pharmakon. Quando, infatti, Socrate ammonisce l’uso della scrittura perché velenosa vuole intendere che il ripetere senza sapere crea falsità e visioni distorte. Così facendo esclude a priori il significato curativo della scrittura e l’unico vero rimedio è l’introduzione della dialettica; solo seguendo questa forma del dialogo si riesce a giungere alla verità dell’eidos:

the truth of the eidos as that which is identical to itself, always the same as itself and therefore simple, incomposite (asuntheton), undecomposable, invariable (78c,e). The eidos is that which can always be repeated as the same. The ideality and invisibility of the eidos are its power-to-be-repeated 
([Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, II, p. 123).

Sulla base di questa ambivalenza semantica, tra l’essere veleno o rimedio, il pharmakon è movimento, è la differance di una differenza, contiene opposti che fa riemergere da un certo substrato in cui i due poli opposti semantici non sono semplicemente “contrari”:

It is from this fund that dialectics draws its philosophemes. The pharmakon without being anything in itself, always exceeds them in constituting their bottomless fund [fonds sans fond]  
[Derrida, 2004], Plato’s Pharmacy, II, p. 127.

Sommarie conclusioni
Il fatto che il substrato di richiami che esiste non abbia mai fondo, implica che la pratica mimetica prende a prestito le corrispondenze che crea da un qualcosa che è infinito: la catena referenziale, pertanto, è infinita e non è possibile trovare l’anello iniziale. 

Pertanto, da un lato i testi fanno riferimento l’uno all’altro e come affermano Gebauer e Wulf:

Sign worlds and simulacra come into being, and there is no longer any fixed point from which to judge them. What result is a play of absence and presence. It takes shape in metaphor, metonymies, signs, and image. The continuity of meaning is destroyed. Meanings displaces each other in the alternation of similarity and difference  
[Gebauer – Wulf, 1995], pp. 305-306 (corsivo di chi scrive).

Questa continuità di significato rappresenta quella linea di demarcazione, sempre meno visibile, tra ciò che è prima e dopo, ciò che è interno ed esterno, ciò che velenoso e curativo, tra l’Io e l’Altro. In questa zona liminare, l’apertura dell’Io verso l’Altro-diverso-da-se-stesso può diventare anche immedesimazione con l’alterità oppure delimitazione di questa ([Gebauer – Wulf, 1995], p. 294). 

Dopotutto, l’alterità può essere interpretata positivamente o negativamente, proprio come il pharmakon, proprio come Derrida ha interpretato la figura di Socrate secondo Platone. E’ stato un mago e la sua cura più famosa è stata la dialettica del discorso, ma nello stesso tempo è il capro-espiatorio, lo straniero, l’altro, il nemico della città che i cittadini hanno voluto cacciare. Per preservare la capacità dialogica di Socrate (padre di questo modo di filosofare), Platone (suo figlio) ha utilizzato la forma dialogica attraverso la scrittura. E’ nella scrittura che Socrate sopravvive: dopotutto, la scrittura è figlia miserabile dell’oralità, figlia che però dissemina tracce per lasciare aperto il viaggio dell’interpretazione.